Attraverso lo spazio nell’universo dell’arte

Attraverso lo spazio (grafico) nell'universo dell'arte

Venite con me!

Facciamo un salto nell’universo degli artisti. Non spaventatevi.

Non è molto pericoloso. Forse però vi sembrerà un po’ strano.

Ma in fin dei conti non è neanche un viaggio vero e proprio, che’ già la parola viaggio potrebbe evocare rischi e pericoli.

Viaggi d’avventura, viaggi allucinati e allucinanti, viaggi nel tempo, viaggi nell’incoscio. Comunque sempre attraverso regioni pericolose e inospitali: “Hic sunt leones?”

Niente di tutto questo!

Niente leoni, nessuna allucinazione nessun pericolo. Emozioni, invece, e un po’ più di conoscenza di un mondo affascinante.

In fondo si viaggia per conquistare, con gli occhi con la mente, col cuore, mondi nuovi.

Venite con me! C’è un universo intero che ci aspetta.

Sarà divertente viaggiare nel tempo che poi è la stessa cosa che viaggiare nello spazio. Almeno così dicono alcuni nuovi artisti underground (molto di moda) che creano storie straordinarie con le particelle che compongono il nucleo dell’atomo.

Comunque faremo solo un salto, una capatina. Un mordi e fuggi veloce. Anche per evitare che qualcuno resti fascinato e si rifiuti di tornare indietro.

E c’è la possibilità di portarsi dietro souvenirs. Un viaggio bellissimo ma breve, molto breve.

Una ventina di minuti o poco più. Non se ne accorgerà nessuno e cosi nessuno ci potrà accusare di avere invaso territori di saperi che si pretenderebbero recintati e con divieto di accesso. Solo per gli addetti ai lavori. Quelli che appena apri bocca ti chiedono: ma tu ce l’hai la patente di storico? Ma tu ce l’hai il tesserino di critico d’arte? E quella di linguista? Di fisico? Di politico’ di letterato?

No signori. Niente barriere e niente recinti. L’universo dell’arte si è sempre dichiarato terra libera e noi ci prenderemo la libertà di attraversarlo liberamente in lungo ed in largo. Senza permessi e senza licenze. Quindi voi critici e personaggi austeri fatevi i fatti vostri. …Con licenza parlando…

Venite con me voi tutti dunque. L’universo degli artisti ci aspetta.

Strana gente gli artisti. Molto particolari. Gente con la quale bisogna stare attenti. Gente da prendere con le molle. Gente che traffica con lo spazio, con il tempo, con la luce, con i colori, con i suoni e le armonie e le dissonanze, con i ritmi le metriche e le vibrazioni, con le parole, con la memoria, con la coscienza, con i sogni e gl’incubi, con i saperi, con le intuizioni, con le domande, con le analisi, con i miti e le certezze, con i dubbi e la speranza, con la fantasia e l’immaginazione…

Con la vita insomma.

Venite con me. Non date retta a chi vi dice: questa è arte e questa non è arte! A chi vi parla di arte come imitazione della realtà. Di arte che imita la vita.

Non è vero! E’ la vita che imita l’arte e non l’arte che imita la vita.

E poi… Quale realtà?

Quella di Giacomino che è sempre incazzato e vede tutto nero?

Quella di Maria che è innamorata e vede tutto rosa?

Quella di Matteo che vede sempre e solo un bicchiere e lo vede sempre mezzo pieno e se tu lo vedi mezzo vuoto saresti un gufo?

O quella di Annabella che insegue sempre la sua preoccupazione di dimagrire e non vede proprio nulla?

Quale realtà? E quale imitazione? No signori l’arte è arte ed ha una sua personalità. Non ha bisogno di imitare niente e nessuno

Venite con me signore e signori. Si parte.

Tenetevi forte e soprattutto non chiudete gli occhi, non chiudete le orecchie… Spalancate tutti i sensi (soprattutto il sesto) e tutti pori della vostra pelle. E soprattutto lasciatevi andare.

Ecco siamo nello spazio.

Loro (gli artisti) lo chiamano spazio figurativo, spazio grafico, scena, set, inquadratura… Che poi sarebbe l’ambiente di narrazione. Voi, se vi aggrada, potete chiamarlo anche location o in qualche altro diavolo di modo a seconda della moda… Io non mi offendo

Comunque spazio grafico, scenico, figurativo, inquadratura, set o location… è sempre e solo il nostro vecchio e solito spazio sul quale viviamo, mangiamo amiamo. Spazio che circonda la nostra vita e di cui dimentichiamo l’esistenza.

Spazio che per gli artisti è una cosa importante. Lì, nello spazio (figurativo) si svolge la loro opera. Quello spazio, a differenza del nostro, può essere ad una a due a tre o a più dimensioni. Però, anche per gli artisti, è spaziotempo. Perlomeno dopo che lo scapigliato Albert Einstein (un vero artista) ci ha spiegato che spazio e tempo sono la stessa cosa. Lo sapevamo già che tanto abbiamo sempre misurato e raccontato lo spazio con il tempo… … E’ a tre giorni di cammino. Dista solo mezz’ora di bicicletta… Ma lo avevamo dimenticato…

Ma torniamo allo spazio. Quello ad una sola dimensione. Quello monolieare. Lo spazio ad una dimensione è stato utilizzato dai nostri antenati pittori rupestri che decoravano le caverne con le mani intinte nella pittura e schiacciate sulle pareti di pietra.

Una cosa d’altri tempi direte voi!

No e poi no.

Lo fanno anche adesso tutti i bambini del mondo.

Lo spazio monolineare è anche lo spazio della scrittura, della narrazione quello che utilizzano, da sempre, poeti e scrittori. Una parola dopo l’altra lungo il filo del tempo, parole inanellate  e suoni e forme e colori che compongono collane di racconti, storie, sogni, idee, avventure, proteste, rabbia, conquiste, vittorie, sconfitte, offese, perdoni, rimorsi, rimpianti, soddisfazioni, dolore, gioia passione, amore memorie, saperi, natura scienze e tecnica…

Un momento. Mi fischiano le orecchie. C’è qualcuno che  da qualche parte che non è d’accordo! La tecnica non sarebbe arte? E neanche la scienza e la natura? E neanche la grafica e il fumetto?

Signori questo discorso lo ascolto da mezzo secolo, da quando ero bambino e adesso mi ha stufato. Vediamo di metterci un punto fermo!

Se la merda in scatola del Manzoni è arte, se è arte anche il cesso d’oro di Cattelan perché non dovrebbe essere arte la natura, la scienza, la tecnica, la moda, il design, la fotografia, l’architettura, la grafica, il cinema, il fumetto, e le canzonette? Per non parlare della ceramica, dell’intarsio, del ferro battuto, del vetro, degli stucchi, degli intarsi, dei gioielli…

L’arte non è un supporto, né un metodo di lavorazione e neanche è il crisma dello spirito santo disceso sulla terra a ispirare questo o quello (qualcuno si e qualcuno no).

L’arte una maniera di fare. O una maniera d’essere. Cioè spesso è l’artista a rendere arte quello che fa.

E comunque, non sono stati proprio i nostri antenati della Magna Grecia a chiamare l’arte tecnè?

Ma riprendiamo il nostro viaggio, torniamo nello spazio, questa volta bidimensionale, un ambiente che ha spadroneggiato per secoli e secoli e che continua a dominare le mani, le menti e gli occhi (in questo preciso ordine poiché noi prima facciamo le cose, poi ce ne rendiamo conto ed infine le contempliamo).

Lo spazio a due dimensioni è lo spazio piatto del foglio bianco, della tela, del muro dove si dipinge… Quello base x altezza… Quello della grafica primitiva, delle icone, dei segni egizi, degli affreschi di Pompei, delle decorazioni, dei racconti a fumetti… Ma anche lo spazio delle pinakes dei bassorilievi… Nelle arti figurative lo abbiamo adoperato per secoli.

Fino al Rinascimento. Quando la terza dimensione improvvisamente irrompe sui muri, sulla carta e sulle tele, con prepotenza, attraverso l’invenzione della tecnica della prospettiva.

Si può ben dire che la terza dimensione conquista subito la scena poiché la visione prospettica valorizza il soggetto mettendolo in luce, al culmine delle linee di fuga, e quindi al centro dell’attenzione dello spettatore.

In qualche modo la visione prospettica, che conquista progressivamente tutte le arti figurative, trasforma il fruitore dell’arte nello spettatore moderno, mentre  prima  aveva con l’arte un rapporto di soggezione vedendola come cosa divina o magica.

La diffusione della visione prospettica a tre dimensioni è irresistibile e inarrestabile e invade man mano la pittura, la scultura, il teatro, l’ambiente urbano e le architetture, la fotografia, il cinema.

Fino a divenire, nell’immaginario collettivo, un “naturale” modello di visione, di rappresentazione e quindi anche di “costruzione mentale” dell’ambiente umano (della città, degli interni, dei giardini, delle costruzioni, degli oggetti, delle persone eccetera eccetera eccetera).

E a questo punto non possiamo fare a meno di soffermarci a pensare che tante cose che ci appaiono “naturali” e che eleviamo al rango di “realtà”, invece sono solo costruzioni mentali, frutto di un condizionamento culturale. Imposto o autoimposto non fa molta differenza.

Per secoli e millenni, come genere umano, abbiamo creduto di abitare su un pianeta piatto col sole e le stelle che ci giravano intorno…

Era questa la realtà, l’unica consentita, e se qualcuno aveva il coraggio di confutarla, finiva male, magari abbrustolito sul rogo. Come Giordano Bruno. O torturato come Tommaso Campanella. O minacciato come Galileo.

Beh, in qualche modo, il sole e le stelle continuano a girarci intorno, che’, quasi, ci sembra ancora naturale che sia così, anche se, già da qualche secolo, sappiamo benissimo che siamo noi a girare come trottole.

In ogni caso c’è gente pronta a giurare e spergiurare che la terra è irremediabilmente piatta e che il sole e la luna ci girano attorno… Si fanno chiamare terrapiattisti.

Questa per loro è la realtà. Inconfutabile perché confermata dai sensi. Che poi invece sono, in genere, quelli che ci fregano.

Ma torniamo al nostro universo degli artisti.

Il viaggio è ancora lungo e non possiamo stare qui a cincischiare su realtà e illusione.

O no?

O non è, forse, proprio il gioco di oscillazione tra una realtà inafferrabile e l’illusione dei sensi, la sostanza più autentica dell’arte?

Quell’altalena suggestiva tra la percezione dei sensi che ci suggerisce una cosa e la nostra coscienza (o cultura o cervello o memoria) che ce ne suggerisce un’altra magari opposta?

E’ una questione dibattuta da secoli e millenni.

Da Platone ad Aristotele da Cartesio a Leibinitz fino a Goethe che, nella sua Teoria dei colori, ci mette di mezzo anche uno spettro.

No! Niente fantasmi. Lo spettro di Goethe è lo spettro cromatico che è la parte (piccolissima) delle vibrazioni che costituiscono il nostro universo, o la parte che, comunque, i nostri sensi riescono a percepire. Da 428 THz – 749 THz (tra l’infrarosso e l’ultravioletto).

Tra questi due numeretti si colloca il nostro grande e megagalattico universo. Al di qua e al di là di queste frequenze ci stanno altri universi che in minima parte utilizziamo, di cui sappiamo vagamente qualcosa, ma che non riusciamo assolutamente a percepire.

Goethe, “l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra” (la definizione è del poeta Eliot) fu l’ultimo artista globale di tipo rinascimentale (come Leonardo da Vinci per intenderci).

Scrittore, poeta, pittore, naturalista, fisico, biologo eccetera eccetera, studiò con successo quasi tutti i campi dello scibile umano.

Fino a Goethe, la parola artista, aveva un significato diverso da quello attuale. Significava uomo che sa tutto, sapiente, mago…

Poi il sapere divenne parcellizzato e specialistico. E anche l’uomo e l’artista.

Ma torniamo nello spazio. Quello dove abbiamo lasciato i nostri artisti, felici e contenti di godersi la prospettiva e le tre dimensioni.

Siamo già nell’ottocento, nei teatri, giovinette traviate si lasciano morire di consunzione e d’amore mentre in tutta la vecchia Europa rimbombano fragori di guerre.

Guerre e rivoluzioni. Rivoluzione industriale, rivoluzione sociale, lotte di liberazione nazionale, guerre coloniali, guerre commerciali, guerre di conquista… Praticamente quasi tutti i popoli europei stanno a scannarsi l’uno con l’altro. Un giorno si e l’altro pure. E i nostri artisti che, come dovrebbero sempre fare gli artisti, interpretano  il loro tempo, in questo ottocento, così incasinato, non stanno tranquilli neanche loro.

Sturm und drang!

Tempesta e impeto attraversano l’Europa assieme agli eserciti in guerra. L’inquietudine, il dubbio, la paura, la ricerca, la speranza, il fanatismo, la follia che attraversano la società, permeano prima ancora, l’universo dell’arte che, nel frattempo, da produzione, in qualche modo, pubblica, finanziata da re, papi, nobili, preti, e mecenati, diventa prodotto commerciale, e approda nelle casette borghesi, nelle gallerie, nei mercati e perfino nelle bancarelle.

Con la borghesia al potere tutti (quelli che hanno i soldi) possono comprarsi tutto. E’ questa la novità. Possono comprarsi il pane, le macchine e i nuovi schiavi che sulle macchine lavorano fino a schiattare.

Possono comprarsi anche l’arte e gli artisti. I quali hanno lasciato le chiese, i palazzi nobiliari, gli edifici pubblici e sono scesi tra la gente in strada a vendere le loro opere divenute portatili e tascabili.

Ma nonostante tutto, nell’universo dell’arte, è un periodo febbrile, di grande vivacità, di ricerca e grande produzione, sollecitata anche dal mercato e dai mercanti. L’oggetto della ricerca in genere non è più lo spazio né la luce che lo modella e lo descrive, ma il colore. S’inventano nuove tecniche pittoriche che utilizzano l’accostamento di tinte originali e pulite sotto forma di macchie, puntini, linette e trattini.

Il risultato finale è impressionante, anzi impressionista.

Le macchie, i puntini, le linee diventano un tessuto morbido e luminescente che disegna una realtà nuova, sempre cangiante, mutevole e difficilissima da afferrare nella sua intera essenza. Come è, in fondo, ogni “realtà” che si rispetti. E’ un’arte parcellizzata fatta per esaltare il  trionfo del ceto borghese che miete successi e acquisisce sicurezze.

Un’arte che non si accontenta di trovare ispirazione nella natura e nell’ambiente urbano delle città europee ma, consapevole della distruzione che la rivoluzione industriale, sia pure in questa fase creativa e trasformatrice, opera sulla natura, cerca altrove segni e simboli di un mondo-paradiso che considera già perduto. Esplode il mito del “buon selvaggio” e vengono saccheggiate storie, forme, colori e icone di paesi lontani;specialmente in Oriente e Africa.

Intanto siamo nel novecento e,  un po’ dovunque, ma soprattutto nei paesi anglosassoni, si fa strada una espressione molto innovativa, coerente con il nuovo ambiente urbano. E’ una forma espressiva che non si pone limiti; abbraccia l’architettura, la moda, il disegno dei tessuti, la forma ed il disegno dei suppellettili di uso comune…

Tutto diventa arte. Dalla caffettiera alla cattedrale.

La chiamano Art nouveau (arte nuova) ma anche liberty e stile floreale.

Un universo inquieto quello degli artisti. Che non si placa con l’ingresso nei salotti dei nuovi ricchi, ma torna ad infiammarsi al grido di: “épater le bourgeois”. Bisogna stupire, meravigliare, sbalordire, scandalizzare… con la poesia, con la pittura, con il teatro… E se necessario bisogna urlare più forte con colori più violenti.

Nasce l’espressionismo che scava nei vizi e nelle miserie di una classe dirigente già decadente, pigra, grassa e corrotta. Che dagli espressionisti viene derisa, insultata, messa alla berlina… A Berlino. A Parigi, invece, si riprende la ricerca sullo spazio figurativo.

La visione prospettica monoculare non soddisfa più le esigenze di espressione delle nuove generazioni di artisti. Soprattutto per quanto attiene alla produzione e riproduzione della figura umana. L’artista vuole scavare più in fondo e vedere e mostrare di dietro, di lato, di sopra e di sotto l’oggetto della sua attenzione.

Nasce il cubismo che è l’idea di rappresentare sulla superficie a due dimensioni, tutte le dimensioni possibili, compreso il tempo e l’anima dell’oggetto rappresentato.

Nel dipinto “Guernica”,  Pablo Picasso riproduce l’orrore della guerra civile spagnola come mai nessuno prima era riuscito a fare. Soprattutto le sensazioni emotive e la dimensione temporale. Guardando Guernica guardiamo le guerre di tutti i tempi e di tutti i luoghi e riviviamo l’orrore e la paura vissuta da tutte le vittime di tutti i mondi e di tutti gli universi.

Ma vedere (e riprodurre) tutte le dimensioni significa poi, alla fine, non vederne nessuna. Il tutto ed il niente in fondo sono convenzioni e lo spazio (anche quello figurativo) non è nient’altro che spazio.

Un nuovo movimento che irrompe soprattutto nella pittura del prime decennio del novecento, decide che lo spazio grafico è diventato troppo complesso. La nuova parola d’ordine è: togliere, rimuovere, cancellare.

Si eliminano i contorni, vanno via le ombre, le sfumature e le profondità. via vuoti e pieni, sporgenze e i rilievi e quindi tutti i particolari che disegnano la nostra realtà e che in genere ci fanno distinguere una mela da un fiore.

Restano tessiture di colore squadrate, campiture di tinte uniformi di varie dimensioni.

E questo strano mondo, tornato a sole due dimensioni, ha un suo fascino, una sua poesia, un suo suggestivo linguaggio.

E’ l’astrattismo signori.

Che però non coinvolge completamente il proteiforme universo artistico del primo novecento.

La modernità, i cambiamenti sociali, le innovazioni scientifiche e le conquiste tecnologiche, come un’esplosione nucleare, producono una moltitudine di ceppi mutanti nell’universo degli artisti, mentre, nei secoli precedenti, poche scuole di pensiero avevano resistito, immutabili, per decenni e decenni.

Ora gli artisti vogliono dipingere il tempo nuovo e quindi la velocità.

All’orizzonte si affacciano eventi grandiosi e terribili.

Guerre totali come bagno di sangue purificatore.

Bisogna essere preparati.

Serve un uomo nuovo, servono nuove tecnologie.

Serve un’arte nuova capace di cogliere il linguaggio delle macchine, la loro energia, la loro forza di trasformazione.

Serve un’arte che costruisca l’uomo nuovo che esprima il senso di tutto questo.

E soprattutto serve la velocità. La ve lo ci tà. La ve lo ci tà

I futuristi sono una razza nuova.

Una razza guerriera che non teme di fare i conti e addirittura interpretare i due mostri che si affacciano all’orizzonte: il nazifascismo ed il comunismo stalinista.

La vecchia Europa si spacca in due e anche i movimenti culturali che erano una moltitudine si ricompattano in due anzi in una sola tendenza il neorealismo che, sostanzialmente, ha il solo obiettivo di celebrare la dittattura e i dittatori.

Le dittature uniformano tutto.

Non sopportano differenze, particolarità, distinzioni, sfumature.

Chi non si adegua sparisce.

In un modo o nell’altro.

Della Bauhaus tedesca, del Costruttivismo sovietico del Futurismo anarchico italiano che avevano vissuto la trasformazione rivoluzionaria e conquistato all’arte il design,  il cinema, il teatro, l’architettura, la danza e la fotografia, restano le opere e alcune influenze che avranno una certa importanza solo dopo la guerra e la fine delle dittature.

Nei confronti della guerra e del potere, l’atteggiamento degli artisti è sempre stato ambivalente. I movimenti culturali e artistici, come i movimenti politici, nascono nei luoghi e nei tempi di crisi. Crescono e si sviluppano nella corsa verso il potere. Una volta al potere, in tempi più o meno lunghi, decadono e muoiono.

Per cui è normale che, nello stesso tempo e nello stesso luogo, convivano movimenti fortemente contestatori, movimenti maturi e movimenti conservatori o addirittura reazionari. Alla stessa maniera, nei periodi critici, è normale che una parte (in genere la maggioranza) degli artisti e degli uomini di cultura si schieri col potere e per la guerra e una parte (in genere la minoranza) si schieri contro il potere e contro la guerra.

Così mentre i futuristi inneggiano al potere delle industrie e della tecnologia, mentre si brinda alle armi e ai dittatori e alla guerra, sola igiene dei popoli, nasce Dadà.

Irridente, ironico, sarcastico, antideologico, cinico, sprezzante, Dada è contro tutti i poteri e tutte le dominazioni. Anche contro la cultura, anche contro l’arte. Dada è contro le guerre che, non sono igiene dei popoli, ma pura barbarie e imbecillità.

Dadà, con precisi intenti politici culturali, sostituisce, sconvolge e scambia i significati. La terra con il cielo, la guerra con la pace, i poteri con l’anarchia.

E’ perciò che Marcel Duchamp, alla mostra degli artisti indipendenti di New York, tenta di esporre un orinatoio capovolto col titolo di “Fontana”. Gesto dissacrante, sfottente offensivo ma voluto e perfettamente nella logica Dada. Un orinatoio riceve normalmente liquidi di rifiuto, messo in alto e capovolto, diventa fontana e dona acqua pulita.

Dada è il tentativo di abbattere, capovolgendola con la creatività e l’analisi, una realtà insopportabile e impossibile da trasformare.

Col movimento Dada siamo comunque a spazio zero. Anzi siamo a zero tutto. Non c’è nulla da salvare. Non la luce, non lo spazio, non il colore, non le ombre e dettagli che, se ci sono, non hanno importanza. Ha importanza solo il messaggio. “capovolgimento – rivoluzione”. Arte, quindi, come comunicazione pura.

Qualcuno può pensare che non vi possa essere nulla oltre lo spazio zero.

Sbagliato.

Oltre lo spazio zero di Dada c’è ancora un universo.

Quello dei surrealisti.

Infatti, se una realtà insopportabile, non si può trasformare e non si può abbattere, si può ancora fare qualcosa.

Si può andare oltre i poteri e le dominazioni, oltre i doveri e le sottomissioni, oltre i compromessi e le accettazioni…

Ci sono universi, ancora, quasi completamente, inesplorati che danno il potere di trasformare noi stessi. Trasformare le capacità del nostro sguardo e quindi trasformare la realtà. Crearne una completamente nuova.

Sono gli universi del sogno della meditazione, della introspezione, dell’incoscio, dell’immaginazione dove tutto è possibile e nulla è scontato.

E qui, però, proprio nel sogno, finisce il nostro viaggio.

Ci restano una manciata di minuti, giusto il tempo per dare uno sguardo ad un ultimo spazio.

Uno spazio geografico questa volta.

La Calabria ed il comprensorio soveratese.

Sento dire spesso dai soliti “esperti” quelli col tesserino e la patente (comunque scaduta). Qui non c’è niente! A Soverato non c’è niente! In Calabria non c’è niente!

Lo dicono anche alcuni furbetti che su questo ci marciano.

Che magari vorrebbero lasciare intendere “Ci sono solo io” Oppure: “Se non c’è niente bisogna portare qualcosa da fuori e quel qualcosa ha un prezzo”.

Intorno all’arte e alla cultura, da noi, non girano tanti soldi. Ma, quei pochi che ci sono,  i soliti furbetti se li vogliono intascare. Tutti.

Il fatto è che non è vero che qui non c’è niente.

Qui c’è molto. E molto di più potrebbe esserci se solo lo volessimo veramente.

Se anche sapessimo come accoglierlo e come valorizzarlo.

Il problema è che quello che c’è, se nessuno lo cerca e lo utilizza, se non serve a nessuno, va via o muore.

Come il MUSABA.

Il MUSABA è il Parco-Museo-Laboratorio di Nik Spatari e Hiske Maas.

Nik Spatari è senza dubbio il più grande artista contemporaneo calabrese noto ed apprezzato in tutti gli ambienti artistici internazionali.

Il MUSABA, che accoglie ogni anno migliaia di visitatori da tutto il mondo, è stato fondato e costruito da Nik Spatari e Hiske Maas nel corso degli ultimi 50 anni senza contributi pubblici.

E’ costituito essenzialmente dalla collina che ospita l’antico convento basiliano di Santa Barbara a Mammola. Su tutta la collina e all’interno del convento ci sono le opere di Nik Spatari e di altri artisti.

Nella chiesa c’è “Il sogno di Jacob” un affresco di decine di metriquadri di Nik Spatari che è stata paragonata alla Cappella Sistina.

Ma tutto questo rischia di finire.

Le opere di Nik Spatari e il Sogno di Jacob hanno bisogno di fondi per restauri urgenti.

In Calabria non s’è fatto avanti nessuno ma c’è un’offerta dello Stedelijk Museum di Amsterdam ed è possibile che il MUSABA vada a finire in Olanda.

Quando l’avremo perso, forse, capiremo il suo valore.

Come forse stiamo imparando a capire il valore delle migliaia di cervelli che se ne vanno altrove perché qui non c’è spazio per loro ma per i mafiosi si.

Possiamo fare qualcosa noi qui e adesso per migliorare questa situazione?

Si moltissimo.

Per esempio possiamo visitare le realtà culturali (musei, aree archeologiche, monumenti, laboratori, ateliers). La conoscenza del patrimonio culturale del nostro territorio arricchisce le nostre conoscenze e migliora il sapere collettivo.

Per esempio  possiamo partecipare a mostre e convegni, andare a teatro e al cinema. Un evento artistico-culturale arricchisce la nostra mente e allarga i nostri orizzonti.

Per esempio possiamo acquistare le opere che ci piacciono. Un oggetto d’arte, quadro, scultura, decorazione, gioiello, fotografia ci dà gioia, autostima e  impreziosisce i posti in cui viviamo.

Infine e più importante possiamo non dare il nostro voto a chi dice che con l’arte non si mangia. E’ vero che con l’arte non si mangia ma “non di solo pane vive l’uomo.”

E scegliere amministratori colti, competenti e sensibili alla bellezza migliora la comunità nella quale viviamo.

Vedrete stasera le opere di alcuni artisti del nostro comprensorio.

Siccome l’artista parla attraverso le sue opere, non dirò nulla di esse. Saranno le opere stesse a parlare.

E avranno sicuramente tante cose da dire.

Come hanno tante cose da dire le opere di centinaia di artisti (giovani e meno giovani) che, nel nostro comprensorio, compiono sacrifici enormi per produrre musica, pittura, scultura, ceramica, fotografia, oreficeria, grafica, video, fumetti, teatro, liuteria, ferro battuto, gioielli, poesia, romanzi…

Quelli che aprono botteghe, laboratori, ateliers, scuole e poi devono chiudere magari perché il fisco bussa alla porta e loro non guadagnano abbastanza.

Quelli che tentano le strade del nord o dell’estero perché la Calabria (e l’Italia stessa) oggi non è un posto dove l’arte ha un presente e un futuro.

Quelli che sono costretti a ridimensionare la loro ambizione e la loro capacità creativa e si trovano un altro lavoro coltivando l’arte come hobby.

Quelli che si mettono insieme per affrontare meglio le spese, le difficoltà e rafforzare la loro capacità di resistenza e le loro ricerche, il loro entusiasmo.

Gli artisti del nostro comprensorio sono un piccolo mondo affascinante che non viene raccontato. Neanche dai media locali troppo impegnati ad inseguire la vipperia locale, spesso arrogante e pretenziosa

Un piccolo mondo importantissimo che rappresenta il nostro futuro ma di cui non si occupa nessuno.

Neanche coloro che hanno responsabilità e poteri di amministrazione e governo, sanno niente. Quelli che potrebbero e dovrebbero mettere a disposizione gratuitamente risorse materiali e finanziarie per tutte le manifestazioni culturali. Quelli che hanno la responsabilità ed il mandato di promuovere e costruire un ambiente culturale capace di apprezzare e valorizzare l’arte…

L’arte, questo universo che ci rende migliori e più umani…

Signori si scende. Il nostro viaggio è terminato.

Siamo al capolinea. Purtroppo…     

… Però dal capolinea si riparte. 

Tra poco.

di Mimmo Loiero